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Diana Vreeland: L'imperatrice della moda che amava i cavalli da corsa


La prima cosa che si nota nei purosangue da corsa è la velocità. Sono potenti, selvaggi, inarrestabili. La competizione è linfa vitale nelle loro vene. Sono rari, quelli di cui si ricordano i nomi si contano sulle dita di una mano. Diana Vreeland amava i cavalli da corsa. Ne amava le qualità e la bellezza, il profumo di rispetto che impregna l’aria quando camminano maestosi.

La Vreeland era senza ombra di dubbio una purosangue, non per estetica, ma per cuore. Non correva per vincere, né per partecipare, correva per sete. La sua mente era insaziabile, moderna, aperta. Tutto ciò che il mondo offriva lei lo faceva suo e lo portava dentro.


Nacque a Parigi nel 1903, non come Vreeland, cognome del futuro marito, ma come Dalziel, che in gaelico antico significa “Io oso”. Il coraggio era quindi insito nella sua natura.

Non era nata bella Diana, o almeno non quanto lo era la sorella. Era la bellezza a nascere da lei. La bellezza dei suoi ricordi di Parigi, poi di Londra e di New York. Decenni rimasti impressi nella sua mente, che si tramutavano poi in vere e proprie storie, alcune vere e altre meno, ma era appunto la licenza poetica a renderle ancora più interessanti. Era aristocratica, ma agli snob preferiva i gigolò dei roaring ’20s, con cui condivideva la passione per il ballo.


Era il 1932 quando venne notata da Carmen Snow, allora direttrice di Harper’s Bazaar, mentre ballava in uno Chanel di pizzo bianco. Il giorno seguente non tardò ad arrivare la prima proposta di lavoro e con essa la sua prima rubrica, che si chiamava “Why don’t you”. Tre parole che racchiudevano un universo intero, un modo di pensare, una sensibilità che nessuno mai sarebbe riuscito a riprodurre. La rubrica era stravagante, a tratti quasi assurda, ma completamente in linea con la sua natura. Era così Diana, erano così i suoi editoriali. Le fotografie avevano smesso di essere solo fotografie, le storie prendevano vita, i lettori venivano catapultati in Cina, poi in Africa, poi in America, pagina dopo pagina. Non aveva paura la Vreeland e non aveva freni.

Era la bellezza non convenzionale ad attrarla. I nasi grossi, le orecchie a sventola e le fronti alte diventavano per lei il focus dell’attenzione. Era in grado di trasformare brutti anatroccoli in cigni e di vedere il potenziale in loro ancor prima che essi lo capissero da soli. Il documentario “The eye has to travel” riesce a trasformare noi in cigni, scombinandoci dentro, rendendoci dipendenti dalla Vreeland, dal suo parlare come poesia, dai grossi gioielli, dalle sue movenze.


Dal 1962 al 1972 fu direttrice di Vogue America e riuscì a cambiare il cuore del magazine, rendendolo appetibile, desiderabile e mai scontato. Le donne si affidavano a lei, ben consapevoli di essere nelle mani della Signora dello stile e dei suoi consigli bruschi, che non prevedevano però margine di errore.


Era l’irriverenza il suo segreto, il suo qualcosa in più. Fu proprio questa a permetterle di cambiare l’immagine del MET di New York, dove lavorò come consulente dopo la fine della sua carriera a Vogue. Il museo e gli abiti tenuti negli archivi ripresero vita, le esibizioni diventarono spettacoli e la giornata di apertura della sua nuova mostra divenne l’evento più importante dell’anno per il mondo della moda. Tutti volevano essere con lei. Tutti volevano essere parte di un pezzo di storia.

E come parte della storia Diana Vreeland e il suo occhio inquieto sono impossibili da dimenticare.


Via: 1,2

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